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Il professor Brunetta tra Craxi, Berlusconi e i fannulloni

1899

Discutendo di scienza, politica e morale, professor Brunetta, Auguste Comte ebbe a sostenere che >da fuori registronessuna proprietà può essere creata e trasmessa da una sola persona, senza una indispensabile cooperazione pubblica specifica e generale ad un tempo“, sicché “il suo esercizio non deve mai essere puramente individuale“. Comte, che non era né un anarchico insurrezionalista, né un rivoluzionario bolscevico, ricordava ai benpensanti borghesi che, in casi estremi, è consuetudine universale che una comunità di individui ridotti spalle al muro autorizzi se stessa a impossessarsi della proprietà e la confischi. Un capitalismo sano non si schiererebbe con la tracotante malafede dei sostenitori della logica del profitto e aprirebbe un dialogo coi giovani che insistono: “noi la crisi non la paghiamo“.
Per carità, ministro, non balzi dalla comoda poltrona trovata dio sa come in un Parlamento di “nominati” che nessun cittadino ha potuto votare. Vedrebbe crollare in anticipo il castello di carte su cui poggia la sua malcerta popolarità e indurrebbe il grande pensatore positivista a ricordarle che, nel clima di sfascio morale della classe dirigente di cui lei fa parte, la solidarietà con la Gelmini e la campagna contro i funzionari pubblici sono un nonsenso politico e una scelta indecente per un uomo di cultura.
Lei dovrebbe saperlo, professore: quando all’economista fa difetto la sottigliezza critica che viene dalla filosofia, l’insieme delle nozioni non si leva a sistema di pensiero, il respiro etico diventa corto e l’elaborazione scade a livello di propaganda o si riduce a sterile polemica, là dove occorrerebbe volare alto e tornare alle regole morali che sono alla base d’una funzione sociale.
Non stupisca, professore. “In ogni stato normale dell’umanità – ebbe a scrivere Comte – qualsiasi cittadino costituisce realmente un funzionario pubblico, le cui attribuzioni determinano nello stesso tempo gli obblighi e le pretese“. Lei, ministro professore, con la sua anemica tesi sul “fannullonismo“, fa una gran confusione. Là dove ci sono obblighi contrattuali, lei si fa strabico e accampa pretese e, quando le si contesta una pretesa, lei farfuglia di lavoratori e fannulloni. Torni a studiare, dia retta, ministro professore; le avranno fatto male gli amici di gioventù.
E’ vero – e so che tiene a dirlo – nel secolo scorso, Craxi imperante e Tangentopoli incombente, dal 1983 al 1987, lei s’è installato come reponsabile di tutte le strategie per l’occupazione e la politica dei redditi al Ministero del Lavoro. Ce l’aveva voluta Gianni De Michelis – questo, lo so, preferirebbe tacerlo – un “avanzo di balera” per dirla con Biagi, protagonista del tragico naufragio della vicenda socialista. Se la memoria le fa difetto, i dati sono questi: 35 procedimenti giudiziari, due condanne per corruzione, tre anni di reclusione dopo patteggiamento e pena sospesa per condizionale.
L’avesse avuta come alunno, Comte le avrebbe spiegato che qui non si tratta di marcare un delirante confine tra la destra degli stakanovisti e la sinistra dei fannulloni. Ciò che apre o chiude la finestra sul futuro, professore, è la maniera in cui si esercita il potere e, lei lo sa bene, se questo è un Paese di fannulloni, il principio regolatore del fenomeno riposa nella moralità della classe dirigente, sicché, come suo antico esponente, come ministro di un governo guidato per l’ennesima volta dall’intellighentia berlusconiana, lei, Brunetta, è evidentemente il “principe dei fannulloni“. Senza remissione di peccato.
Dovrebbe saperlo, ministro professore, Comte gliel’ha insegnato: “regolando la funzione, si reagisce indirettamente sul possesso“. Regoli se stesso, quindi, e faccia uso di quel che ha appreso in quella università in cui ha rivestito ruoli di vertice e sulla quale oggi spara con discutibile coerenza. Premi la libertà, se pensa di premiare il merito e, se ne ha la tempra morale, faccia suo e dei suoi camerati sedicenti deputati il dovere di stare alle regole. Un professore colto e un ministro lungimirante non oserebbero assoggettare “le funzioni pubbliche a prescrizioni tiranniche […], che tenderebbero a degradare profondamente il carattere umano, distruggendo la spontaneità e la responsabilità“, senza far conto anzitutto su se stessi e sui propri colleghi.
Lei non può fingere d’ignorarlo, professor ministro: il male dello spirito pubblico ha riposato sinora nella sua gestione politica. Il male, quindi, vuole la logica, è stato innanzitutto lei. Dia ascolto a Comte, se non intende dar conto alla coscienza: “il valore d’un sistema politico non può consistere essenzialmente che nella sua esatta armonia con lo stato sociale corrispondente[1]”. Non si lasci accecare dalla luce che abbaglia chi la sorte destina alla rovina e non menta a se stesso. Non basterà a ingannare la storia. Lei rappresenta un ordine politico lontano mille miglia da ciò che la stragrande maggioranza del Paese si attende dal governo. Istruzioni snaturate, diritto di voto limitato, leggi contro la libertà di stampa, contro l’istruzione statale, contro la solidarietà tra le parti sociali, contro l’equilibrio tra le funzioni economiche, contro l’autonomia della Magistratura: questo, professor ministro, è ciò che ci è venuto sinora da lei e dalla sua parte politica.
Bettino Craxi, il peggiore dei socialisti e, a quanto pare, suo maestro ideale, discutendo della Palestina, dell’Olp e di Arafat in un Parlamento di deputati ancora eletti dal popolo, il 6 novembre dell’ormai lontano 1985, levatosi a parlare, volle dire una verità in cui credeva profondamente. “Quando Giuseppe Mazzini – sostenne impavido tra mormorii e interruzioni – nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’Italia unita ed era nella disperazione di come affrontare il potere, lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva, disegnava e prospettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia e contestare a un movimento che voglia liberare il proprio paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi, significa andare contro le leggi della storia” [2].
Noi, fannulloni di sinistra, professore, saremmo indotti a credere che lei – oggi stakanovista in un governo di destra, all’epoca collaboratore di “fannulloni in un governo di centrosinistra – condividesse le parole del suo capo. E tuttavia, vedendola a braccetto di Berlusconi e Bossi, ci possiamo fare a meni di domandarci come faccia a stare in un governo di filosionisti e di secessionisti e le vorremmo chiedere: quand’è che mentiva, professore, quand’era un “fannullone di sinistra” con Craxi, oppure oggi che si ammazza di lavoro per Berlusconi?
Quale che sia la sua risposta, ministro professore, è evidente: noi siamo nemici inconciliabili. Al di là della risibile teoria sul fannullonismo“, della quale renderà conto alla storia, per ragioni di opportunità personale lei s’è schierato tra le fila dei Cota e dei Calderoli, che danno l’assalto alla fortezza della civiltà in una guerra scellerata tra la forza e la ragione. I nuovi barbari, direbbe Salvemini. “Una grande civiltà – quella del mondo romano – crollò nel terzo secolo; e non è certo che la nostra civiltà non abbia a soccombere di fronte all’assalto dei nuovi barbari. Io […] dico che né la vittoria della ragione, né quella della forza sono sicure. L’esito dipenderà dall’ostinazione dei combattenti e da eventi imprevedibili, su cui la volontà umana non ha alcun controllo. Ma non è necessario credere nella vittoria, per iniziare la lotta e proseguirla” [3].
L’hanno capito i suoi studenti, professore, mentre lei fa ancora molta fatica. E, tuttavia, lo sente, lo percepisce e ne è terrorizzato: i giovani non si fermeranno.

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1] Questa e le precedenti citazioni sono in Comte, Dizionario delle idee. Scienza, politica, morale, a cura di Stefannia Mariani, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 76-78.
2] Atti Parlamentari, Intervento di Bettino Craxi, Presidente del Consiglio, tornata del 6 novembre 1985.
3] Gaetano Salvemin, Il culto della violenza, “The Nation”, 28-8-1937.

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