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Salvare le banche e non saperlo

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 Con una mano schiaffeggiati (teneramente) e con l’altra aiutati. Soldi che piovono non dal cielo, ma dalle tasche dello stato. Ovvero dei cittadini

“Se la banca fallisce i banchieri vanno a casa, o in galera”. Così il ministro dell’economia Giulio Tremonti ha annunciato i provvedimenti del governo a sostegno del sistema bancario italiano. Provvedimenti che sicuramente incorporano una forte dose di impopolarità.Ma perché i banchieri in pochi mesi sono passati dagli allori delle copertine delle riviste del settore, grazie agli utili su utili che garantivano ai loro azionisti, a una gogna mediatica, sponsorizzata senza remore da Tremonti, che li vede come i responsabili di tutti i mali dell’economia italiana?


LA FORESTA PIETRIFICATA
– Facciamo un passo indietro. Sono i primi anni 90 e l’Italia è appena uscita dalla più grande crisi finanziaria della sua storia. Ha rischiato di “fallire“, come poi succederà all’Argentina. La Lira è dovuta uscire dallo SME sotto gli attacchi della speculazione, per poi rientrarvi dopo aver subito una svalutazione del 25%. Solo poche settimane prima il Marco si acquistava con poco più di 800 lire, ora ne vale quasi 1300, cosa che porterà in futuro al vituperato concambio Lira-Euro (che non è altro che il Marco con nuovo nome) a 1936,27. Fino a quel momento le banche italiane avevano vissuto in un “limbo” protetto con più di metà degli istituti di credito che sottostavano al diritto pubblico. Le più grosse erano inoltre di proprietà dell’IRI, cioè statali, mentre le casse di risparmio erano state solo pochi anni tramutate in SPA dalle legge Amato-Carli, ma ancora sottoposte al controllo di fondazioni di diritto pubblico. Ma l’integrazione europea spinge sia attraverso le regole, sia attraverso i vincoli di bilancio che obbligano lo Stato italiano a dover far cassa, e presto. Così negli anni successivi si assiste a un terremoto che scuote quella che allora veniva definita “la foresta pietrificata“. Accanto a questo gigantesco movimento di aggregazione vi è un cambiamento epocale di mentalità da parte dei manager bancari. Mentre prima questi ultimi dovevano rispondere ai loro “padrini” politici, e quindi il fine ultimo era la ricerca del consenso, adesso sono gli azionisti a comandare, e l’utile, il famigerato ROE (return on equity, cioè quanto utile rispetto al capitale) diventa la stella cometa. A esso vengono sacrificati gli equilibri di decenni: i dipendenti bancari vengono tagliati sia a livello di numero, tramite prepensionamenti di cinque anni e blocco di assunzioni, che di costo, con i nuovi contratti che li parificano sempre di più agli impiegati degli altri settori; nuovi prodotti finanziari e la dismissione di tanti beni ritenuti non “strumentali“, cioè utili all’attività di impresa.

FU VERA GLORIA? – Da ROE del 2-3% le banche italiane iniziano pian piano ad arrivare a ROE a due cifre. Una rivoluzione. I nuovi banchieri assurgono a improvvisa popolarità. Soprattutto i due della McKinsey: Corrado Passera e Alessandro Profumo, giovani, dinamici e che sembrano far tramutare in oro tutto quello che toccano, il primo riuscendo persino a portare in utile le Poste Italiane, impresa dai più ritenuta disperata. Ma sono anche gli anni in cui le aziende ex statali vengono acquisite dall’imprenditoria italiana attraverso immani operazioni a debito fatte coi soldi delle banche. Telecom e Autostrade sono fra le operazioni più significative e ancora oggi controverse. Infatti a guardare a distanza di anni le cose ci si accorge che gli utili di questi anni sono stati fatti attraverso operazioni straordinarie e non più ripetibili. Non c’è più una Telecom da “spolpare” con commissioni e interessi, non ci sono più le migliaia di immobili accumulati dalle vecchie e prudenti Casse di Risparmio da buttare sul mercato, i dipendenti sono ridotti e costano oramai come i loro colleghi europei. Si raschia oramai il fondo del barile e quindi per mantenere gli stessi livelli di utile a cui oramai gli azionisti delle banche sono abituati e sui quali si basa il loro potere i nostri manager sono costretti adesso a ricorrere a politiche commerciali sempre più aggressive. E rischiose.

UNA PURA FORMALITÀ – “Firmi pure qua, è solo una formalità“. Quante volte il cliente di una banca si è sentito dire questa frase? Una volta però al massimo comprava un BOT o al massimo un Certificato di Deposito. Oggi può invece ritrovarsi “fortunato” possessore di un Fixed Reverse Floater Bond o di una polizza Index-Linked. Ma se le banche hanno fatto passi da giganti nel mondo della finanza strutturata, il cliente medio italiano è rimasto nella maggior parte dei casi ancora legato ai ricordi dei vecchi titoli di stato, di cui rimpiange i rendimenti oltre il 10% dei magnifici anni 80, e crede che il bancario sia un “consigliere” e non un venditore come tutti gli altri. I crack Parmalat, Cirio e Argentina avevano già iniziato a fare breccia nella consapevolezza di molti, i “borsini” delle banche si sono già “desertificati” dopo il crollo dei titoli “tecnologici” e i tanti che ancora piangono le Tiscali acquistate a 200 euro. La crisi finanziaria odierna sembra aver definitivamente inceppato il meccanismo e i risparmiatori adesso si rifugiano nei vecchi, cari e amati BOT, BTP e CCT. Ma vendendo titoli di stato le commissioni delle banche languono, con un BTP decennale persino appunto dieci anni prima che quei soldi tornino in circolo. E nuova ricchezza in giro non se ne vede proprio, ancor meno con la recessione in atto, anzi.

E SIAMO A OGGI – Di Unicredit si è già detto tutto. Banca Intesa ha un titolo che oggi vale venti miliardi meno del patrimonio netto, i ricavi da commissione crollano (-14% rispetto al terzo trimestre 2007), ha collocato solo in parte un prestito subordinato pur pagando rendimenti superiori al BTP. Però si concede il lusso di bloccare il rifinanziamento di Zaleski per motivi strategici, salvando un tizio verso il quale ha crediti per 1,7 miliardi con soldi di imprese sue (e CONSOB non apre bocca). Questa settimana Tremonti dovrebbe varare il terzo decreto che permetterà agli istituti di emettere bond e farsi salvare dallo Stato: tra gli aderenti, oltre a Intesa e Unicredit, ci dovrebbero essere MPS, Banco Popolare, BPM, e forse anche Mediobanca e UBU. Quindici miliardi per stabilizzare il sistema bancario privato con i soldi dei cittadini. E poi? Chi ha sbagliato dovrebbe pagare. Oppure, auspicare che questa sia l’ultima volta. Impossibile che accadano l’una e l’altra cosa. Difficile anche che ne accada anche una sola delle due.

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