fbpx

INTERVISTA A BERTAGNA: ”MA DOV’E’ FINITA LA RIFORMA MORATTI?”

2319

Intervista a Giuseppe Bertagna: Ministro Gelmini, ma dov’è finita la riforma Moratti? Di Rossano Salini,   il Sussidiario 19.12.2008
 Come giudicare i decreti attuativi sulla scuola superiore approvati ieri in Consiglio dei ministri, ma validi a partire dal 2010? Secondo Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia all’Università di Bergamo, e una delle “menti” della Riforma Moratti, per parlare di questo «bisogna saper distinguere fra il dito e la luna».

In che senso, professore, distinguere tra il dito e la luna?
 Il dito è l’aspetto contingente: se anche dal ministero fossero riusciti ad attuare da subito il riordino del secondo ciclo, sarebbe comunque stato impossibile farlo a gennaio per poi scegliere a febbraio. Quindi il fatto di essere arrivati a questo punto denota una notevole inadeguatezza strutturale dell’amministrazione e dell’apparato ministeriale, che dovrebbe dirsi “tecnico”, ma che evidentemente non lo è. Invece la luna è che cosa significa questo anno di rinvio: può essere una delle peggiori avversità, oppure può essere un’opportunità. Dipende da cosa si intende fare.

Ci spieghi: in che senso il rinvio può essere un’avversità?
 È tale se non si ha ben presente la reale posta in gioco. Partiamo dall’inizio: noi abbiamo ereditato l’impostazione della scuola secondaria dal fascismo, non da Gentile. È il fascismo che ha statalizzato l’istruzione tecnica, e che aveva cominciato anche a statalizzare l’istruzione professionale. La Repubblica ha continuato la logica del fascismo e ha del tutto statalizzato anche l’istruzione professionale. Questo è accaduto a dispetto del dettato costituzionale, in cui era invece ben presente e chiara un’impostazione diversa: la Costituzione affidava l’istruzione professionale alle Regioni. Se non che, per un cattivo accordo tra Togliatti e la Dc (accordo per cui Sturzo criticò pesantemente De Gasperi), le Regioni furono inserite solo teoricamente in Costituzione, ma fu rinviata la legge che le rendesse attuative.

 Poi però ci siamo arrivati all’istituzione delle Regioni.
 Le Regioni, scandalosamente, sono entrate in vigore nel ’70, sono state fatte funzionare nel ’74, e per quanto riguarda la scuola nel ’76. Ma a quel punto si inventò il meccanismo perverso della distinzione tra istruzione professionale, statale, e formazione professionale, regionale: dove la polpa era dello Stato, e le frattaglie erano delle Regioni. Così è rimasto intatto il monopolio statale, secondo lo schema tradizionale: lo Stato fa i licei per i dirigenti, gli istituti tecnici per i quadri, l’istruzione professionale che dà le qualifiche professionali più alte, mentre le Regioni fanno la formazione per coloro che falliscono negli altri percorsi.

E questa impostazione generale statalista non è mai stata messa in discussione?
 La prima volta che si è tentato di scardinare questa impostazione è stato con la riforma Moratti. Lì si sono accettate le sfide della Costituzione del 2001, affidando istruzione e formazione professionale alle Regioni. Lo schema era questo: esiste un liceo in otto indirizzi (anche se poi nei Decreti diventarono otto licei) che costituisce il canale dell’istruzione, sotto la norma generale dello Stato; accanto a questo esiste l’istruzione e la formazione professionale, sotto la norma delle Regioni, pur rispettando i livelli essenziali stabiliti dallo Stato. I due percorsi dovevano essere di pari dignità educativa e culturale, tra loro interconnessi; e a tal proposito erano previste le possibilità di passaggio da un canale all’altro attraverso un percorso personalizzato.

Qual è stata la reazione di fronte a questa nuova impostazione, che scardinava l’impianto statalista?
 Contro questa idea si è scatenata la più grande e ideologica interdizione che la storia repubblicana ricordi. Già questo arrivò ad incidere sui decreti attuativi, che in parte non erano coincidenti con questo disegno, soprattutto per quanto riguardava l’idea originaria di arrivare a percorsi professionali di 9 anni, vera e propria alternativa alla laurea. Ma poi il colpo decisivo fu dato dal ministro Fioroni, il quale ripristinò la statalizzazione completa della scuola secondaria superiore. Fu confermata la formazione professionale regionale come ospedaliera e residuale, ricettacolo dei feriti e dei morti degli altri percorsi scolastici. Ma, ancor più grave, fu confermato il pregiudizio ideologico per cui chi studia non lavora, e chi lavora non deve studiare. Il paradosso è che questo passò come una “cosa di sinistra”, mentre non era altro che il ripristino dell’impianto fascista.

E dopo Fioroni è arrivata la Gelmini, che prospetta un piano per le superiori, ma lo rinvia al 2010. Ritorniamo al punto di partenza: è un’avversità o un’opportunità questa decisione?
 Il fatto che fino ad ora l’impianto della riforma Moratti non sia stato ripreso, e che anzi la Gelmini abbia detto più volte di volersi rifare al lavoro di Fioroni, proseguendo sulla stessa linea, mi porta francamente a dire che è un’avversità. L’alternativa sarebbe quella di rendersi conto, nell’arco di questo anno di tempo, della fondamentale importanza culturale della riforma Moratti. Tra l’altro proprio in un momento di profonda crisi economica, generata dall’eccessiva fianziarizzazione dell’economia, sarebbe vitale ripartire da quell’impostazione educativa e culturale: concepire l’economia non solo come sviluppo di modelli matematici astratti, recuperare e valorizzare il lavoro come rapporto con la realtà, e quindi la formazione professionale come polmone del rapporto con il territorio, con le associazioni professionali, con le imprese, con l’economia reale. Se succedesse questo, allora l’anno di tempo diventerebbe un’opportunità.

Ma non pare che lei creda molto a questa seconda possibilità…
 Personalmente non credo che le motivazioni del rinvio siano queste. Le vere motivazioni mi pare che siano da ricercare innanzitutto nell’inadeguatezza tecnica di cui dicevo all’inizio. I quadri orari che sono girati in questo periodo sono raccapriccianti, perché non c’è una filosofia, non c’è un’unità, e non si possono costruire i quadri orari come fossero dei “Lego”. Non si capisce poi che fine faccia l’articolazione che era presente nel decreto 226/05 tra discipline obbligatorie e discipline opzionali. E nemmeno l’autonomia si capisce come venga trattata. Manca insomma la filosofa, manca il progetto: e in particolare questo lo si vede negli istituti tecnici e professionali, perché pur di mantenere allo Stato gli istituti professionali si fanno dei doppioni dell’istruzione tecnica che non hanno giustificazione. Ciò detto, lasciamo aperta comunque una porta: se il rinvio dipende dal voler aprire una nuova stagione, allora può andar bene. Ma se è veramente così, allora mettiamo a punto una strategia di dibattito aperto, a livello educativo e culturale, portando avanti proposte autentiche. Un dibattito che deve iniziare subito, perché un anno passa alla svelta. Se invece è successo solo che non si era pronti, e che non si è stati in grado di dominare i litigi per le scelte sull’ora in meno e l’ora in più, allora vuol dire che come Paese dobbiamo interrogarci seriamente, sia su cosa ci aspettiamo dalle scelte educative, sia se abbiamo intenzione di uscire o no dalla profonda crisi in cui ci troviamo.

In questo articolo